Poteva anche andare peggio
S/punto di vista di Giovanna Giuffredi, psicologa
Anche nelle disgrazie sanno dire “poteva andare peggio!” Per loro il
bicchiere è sempre mezzo pieno e se lo svuotano, sanno già come
riempirlo.
Gli ottimisti, sembra che vivano con maggiore leggerezza, non si
fanno sopraffare dagli eventi, sanno come affrontare le difficoltà,
vivono la vita in maniera positiva e ciò che è più straordinario,
sono anche più sani.
Come ha dimostrato Martin Seligman in una ricerca condotta con
Gregory Buchanan, gli ottimisti possono contare su una migliore
salute fisica rispetto ai pessimisti cronici. Ma come fare a
valutare sempre favorevolmente la realtà circostante?
I pessimisti diranno che la capacità di reagire agli eventi
negativi, senza fare tragedie e senza scoraggiarsi, è questione di
inclinazione naturale, di condizionamenti familiari, sociali, ecc.
In realtà, saper reagire con ottimismo alle difficoltà della vita è
un’abilità sociale che si può apprendere. Si può imparare a
trasformare i problemi in opportunità di cambiamento, di evoluzione,
di crescita personale, piuttosto che viverli come ostacoli
insormontabili.
Il primo passo è riappropriarsi della propria vita, sentirsi
artefici, percepire il “potere” personale per quanto riguarda ciò
che ci accade. Le cose non vanno come vorremmo?
C’è chi resta a guardare, chi dice che prima o poi le cose si
aggiusteranno, chi aspetta che qualcuno le aggiusti… e c’è chi
invece, agisce direttamente per farlo, chi va verso la propria meta,
chi si prende il suo pezzetto di responsabilità negli eventi della
vita. L’importante è crederci davvero.
Quando il fuoco dell’intenzione interiore comincia a scaldare il
cuore e sentiamo che vorremmo tanto qualcosa… cominciamo ad andare
in quella direzione senza tentennare. Abbiamo diritto a realizzare
quello che siamo e la felicità si può costruire cominciando da
piccoli passi.
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Mio velenoso amore
racconto noir di Annelise Zamboni
Uccidereste per amore? E soprattutto, vi fareste uccidere?
Le mie dita sfiorano appena le tue palpebre aperte su pupille che
sembrano vetro. Non guardarmi con questi occhi, penso,
l’hai voluto tu, amore.
Il tuo corpo, il corpo del mio amore, è riverso sul letto un po’ di
sbieco, la gamba destra piegata oltrepassa il bordo e il piede quasi
sfiora il pavimento. Stupidamente il mio sguardo passa dai tuoi
occhi alle pantofole ribaltate, poi risale e torna a fissare il tuo
volto. Sembra sereno come in un sonno mai finito. Le labbra tirate
in un sorriso. Gli occhi no, gli occhi sono freddi, non ti ho mai
visto occhi così sconosciuti. Non li sopporto. Li chiudo
abbassandoli insieme con pollice e indice. Subito torna la tua
espressione di sempre, quella che ancora adesso mi provoca un senso
di languore dentro. No, fino a poco fa... adesso il languore è
imbarbarito da fitte che salgono dallo stomaco come vomito e di
annodano in gola come serpenti. Ho gli occhi umidi, ma trattengo le
lacrime. Voglio trattenerle, te lo devo.
È dolore, questo, adesso so cos’è il dolore.
Dal comodino prendo il bicchiere dal quale hai bevuto stanotte. Lo
porto in cucina. Lo risciacquo con l’acqua bollente, passando le
dita sull’orlo, l’ultima cosa che hai baciato, amore, prima con
delicatezza poi sempre più forte... più forte. Metto il bicchiere
nel mortaio, lo frantumo con il pestello, pezzi sempre più minuscoli
che riflettono la poca luce dell’alba come diamanti diabolici.
Torno da te. Mi inginocchio e appoggio la testa sul tuo petto. Mi
stupisco di sentire ancora il tuo odore. Il tuo calore.
Hai finito di soffrire, amore.
Ora posso piangere. Piango.
“Se dovesse succedere a me...”.
Tutto era cominciato con la malattia di Diego, l’amico di famiglia,
il burlone con cui da anni passavano due sere alla settimana a
giocare a carte, a bere, a scherzare e a parlare male del governo.
A fumare, anche. Fumavano tutti e quattro, compresa Alba, la moglie
di Diego.
A mezzanotte, ogni mezzanotte, quando Diego e Alba se ne andavano
l’aria era azzurrina e irrespirabile e compito di Mauro era di
“farla girare” aprendo le finestre mentre Gianna sparecchiava
bottiglie e bicchieri e resti di dolci fatti in casa.
Alba non veniva mai a mani vuote, quasi un patto sottoscritto in
silenzio. Torte Sacher e biscottini alla cannella, budini al
cioccolato e strudel di mele. E il girovita dei quattro ne risentiva
parecchio. Ma tanto, alla nostra età... scherzava Diego.
Quel martedì sera Diego e Alba non vennero. Non telefonarono
neppure. Il rito mancato.
“Avranno visite”, disse Gianna e sprofondò davanti alla TV
addormentandosi all’istante.
Alba venne il mattino dopo. Senza dolcetti. Aveva i lucciconi e due
borse scure sotto agli occhi come chi ha pianto tutta notte.
“Diego è malato”, disse solo. “Molto malato.”
“Se dovesse succedere a me...”.
Mauro non continuò. Era in piedi sulla porta del bagno. In mano i
due bicchieri d’acqua per la notte. Un altro martedì da soli: a
carte non si giocava più.
Diego non voleva vedere nessuno. Si era rinchiuso in un mondo tutto
suo, dove ripassava in continuazione gli episodi più insignificanti
dei settantaquattro anni della sua vita. Alba veniva di tanto in
tanto, di nascosto. Si sfogava con Gianna. Veniva quando Mauro era
fuori con il cane, quasi per pudore. Un pudore che era una sorta di
vergogna, quasi che la malattia di Diego fosse colpa sua.
Fu mentre Gianna gli raccontava dell’ultima visita di Alba, che
Mauro sentì per la prima volta il dolore al petto.
“Se dovesse succedere a me...”.
Mauro appoggiò un bicchiere sul comodino di Gianna, poi l’altro sul
suo. Si infilò sotto il piumone e con la gamba cercò la gamba di
lei.
“...vorrei morire nel sonno. Addormentarmi e non svegliarmi più.
Senza saperlo. Non patendo quello che ha patito Diego”.
Diego era morto quella mattina.
“Questo...”, seguitò Mauro, aprendo il cassetto del comodino,
“questo è l’ideale. Nessun sintomo, se non quello di un qualsiasi
arresto cardiaco. Cinquanta gocce bastano e avanzano”.
Levò dal cassetto la boccetta scura e la tese verso la mano di lei.
Gianna tentò di scostarlo, ma lui non si mosse fino a che la mano di
lei, con riluttanza, non gli avvolse mano e boccetta.
Stettero immobili, gli occhi umidi fissi gli uni negli altri, e non
dissero più nulla. Non c’era bisogno di altre parole, dopo quasi
cinquant’anni di convivenza.
“Ti decidi o no, a farti vedere dal medico?”. Gianna era furibonda.
“Sono stufa della tua tosse, delle tue lamentele, della tua paura.
Stai diventando ipocondriaco, lo sai?”
Paura. Mauro la sentiva sulla pelle, la sentiva mordergli le
ginocchia, la sentiva nella tensione del basso ventre.
Guardò Gianna con aria di supplica. La odiò, anche, per quello che
gli avrebbe fatto se il medico avesse confermato i suoi timori.
Desiderò di non aver mai detto quello che aveva detto. Ma era troppo
tardi.
Paura. Ogni sera, prima di addormentarsi, Mauro ascoltava il respiro
di Gianna. Spesso lei rimaneva sveglia per ore, e di tanto in tanto
gli pareva di sentire un singhiozzo trattenuto che gli dava i
brividi. Solo quando l’ansare di lei diventava lento e regolare
Mauro si alzava, andava in cucina, svuotava il bicchiere
nell’acquaio e lo metteva nella lavapiatti. Poi ne prendeva uno
pulito, lo riempiva d’acqua e tornava a letto. Solo così si metteva
tranquillo e si addormentava subito, come un bambino. Cosa non
comune, alla sua età.
“Cosa stai cercando?”, chiese Mauro. Gianna era china sul suo
cassetto, la mano infilata tra le sue cose. Tra i suoi ricordi, le
tessere del partito finché c’era un partito, quelle del sindacato
finché gli era servito, i biglietti di auguri, le lettere, i disegni
di Lucia quand’era piccola, gli occhiali per leggere...
E la boccetta scura.
“Hai visto la mia spilla, quella di smalto blu?”, rispose lei.
Mentiva. Mauro lo capì dal rombo che gli batteva nel petto, un rombo
sordo che sembrava uscire dal petto di sua moglie.
epilogo
Ora posso piangere. Piango, la testa appoggiata ai tuoi seni
ancora caldi. E morbidi.
Piango ma mi sento sereno come mai negli ultimi tempi.
Così sereno che seguirò il tuo consiglio: mi farò vedere dal medico.
Forse non ho niente, o magari solo una bronchite... e tu potrai
dormire tranquilla, amore.
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